Chi ha ucciso il poeta? Italian translation has started

Emanuela Nanni is the translator of the novella in Italian. She is a researcher and a teacher at the University of Grenoble, specialised in translation and poetry.

dolce-lingua

Here is a taster of the Prologue in Italian (work in progress):

 

Nel suo monolocale di Ville-D’Avray mio fratello guardava il bambino che nel frattempo si era rannicchiato vicino a lui. Erano appena passate le dieci in quel mattino del 20 aprile 2010. Un’allucinazione, si era detto e ridetto Bardo: se avesse accarezzato la testa del piccolo il suo braccio lo avrebbe trapassato. Si è avvicinato e ha allungato la mano. Lentamente.

 

Vorrei essere in fondo a un pozzo o in una terra lontana:

chiudendo gli occhi ritroverei il mio mondo

ridotto ormai a un pugno di  polvere

 

 

Il fanciullo-fantasma ha sollevato la testa. Bardo ha toccato quella testolina e i suoi capelli dalla consistenza densa, quasi fosse acqua melmosa. Quando ha ritratto la mano era completamente asciutta. Qualcuno aveva bussato alla porta della cucina, strozzando sul nascere il suo singhiozzo. Era un uomo dal volto indistinto, portava un cappuccio in testa e reggeva un pacchetto tra le mani. Quando Bardo ha aperto la porta il bambino era al suo fianco e lo teneva per mano; una strana sensazione: afferrare l’incoglibile.

 

Il corriere con le capsule di caffè si è tolto il cappuccio senza salutare il piccolo, non sembrava che potesse vederlo. Bardo ha esitato e pensato rapidamente a qualcosa che suonasse verosimile e poi ha avuto il coraggio di dire al suo interlocutore, lì sulla porta:

– È mio figlio.

 

L’uomo ha guardato il vuoto accanto a mio fratello e ha visto che aveva le dita contratte e piegate come se tenesse una mano immaginaria. Abituato ad avere a che fare con clienti stravaganti, il corriere aveva imparato che qualche frase gentile non guastava, ogni tanto:

–  Somiglia al papà. Ecco, firmi qui.

Bardo ha lasciato la mano del bambino per apporre la sua firma e, non potendo fare altro, cercava di dissimulare la sua ansia dandosi un contegno dignitoso. Ha preso il pacchetto di capsule di caffè, ha  salutato e richiuso la porta. Poi, rivolgendosi a Bernardo, ha affermato:

– Che cosa vuoi?

Senza rispondere, il piccolo se ne stava a guardare una foto appoggiata vicino ai volumi della libreria in cucina. Osservava il viso di una ragazza di vent’anni dagli occhi azzurri cerchiati con un tratto nero, capelli tinti d’un rosso deciso e la pelle candida. In questa foto di sei anni prima, Ophelia e Bardo si tengono per mano, indubbiamente felici.

Con un tono deciso, quasi senza muovere le labbra, il bambino ha detto:

– Era bella. L’ami ancora?

– Non lo so. Non ci vediamo da anni. Non ho sue notizie, a parte uno o due messaggi all’anno.

– Perché?

– Era complicato… ora abita ad Amburgo, almeno credo.

– Ti piacerebbe rivederla?

– Non lo so.

Fino a poco tempo fa pensavo di conoscere la storia tra Bardo e Ophelia nei minimi dettagli perché ero il confidente di mio fratello, lui mi raccontava sempre tutto, ma non ero il custode. Nonostante tutti i dubbi che nutrivo, all’epoca, sulla personalità dell’anglo-francese non mi permettevo di giudicare quella relazione che metteva le ali a mio fratello.  Erano forse ali di cera?

Ophelia fu per Bardo quella che si definisce una passione fatale. La passione si dilata smisuratamente attraverso metafore che possono in alcuni momenti sono sublimi e musicali e in altri triviali e soffocanti. Quando ripensava a lei, mio fratello si rivedeva all’estremità dell’Europa, appeso a una parete rocciosa, lassù a quindici o venti metri di altezza, a picco su un enorme vuoto.

Era in Portogallo, circa sei anni prima, in luglio. Si conoscevano da tre mesi. Ophelia aveva detto di essere affetta da una grave malattia: leucemia. Aveva appena 20 anni e, stando a lei, avrebbe potuto essere la sua ultima estate. Bardo era innamorato del suo fascino da ribelle, di quel carattere imprevedibile, del suo accento byroniano, della sua presenza al contempo intensa e sfuggente, della sua geniale follia e del suo fondoschiena. Ophelia ascoltava molta musica, spesso brani di classica, soprattutto i concerti per pianoforte di Rachmaninov (snob e struggenti) e a volte quello che lei chiamava sorridendo (in realtà lei non rideva mai) del “cattivo rock gotico”: gruppi dediti a un immaginario efferato, come Emilie Autumn, Calabrese o Diary of Dreams. Collezionava film sui vampiri. Al suo fianco mio fratello si sentiva sospinto dai venti più meravigliosi…

Quell’estate si trovavano sulla costa di Sintra, tra il promontorio  Cabo de Roca, punta occidentale dell’Europa, e la spiaggia di Praia da Maçãs, letteralmente la “spiaggia delle mele”. Avevano individuato un tratto di spiaggia a cui si poteva accedere solo affrontando una parete rocciosa, elemento che risvegliava la sete di verticalità e di pericolo di Ophelia. Che cosa aveva sofferto in  passato per farle sentire che  il suo habitat naturale era dato dalle situazioni così estreme?

Mio fratello ha sempre sofferto di vertigini e lei era flessuosa come una liana ma anche imprudente come una calamità. La discesa durò una lunghissima manciata di minuti, si snodava lungo un percorso sempre più stretto, fino a che si trovarono costretti a passare su una sottilissima lingua di terra di appena dieci centimetri mentre i loro corpi erano incollati alla roccia, lontani dal suolo (troppo lontano dal punto di vista di mio fratello, quasi per niente nell’ottica dell’istigatrice).

Bardo faceva del suo meglio per non perdere il suo sangue freddo. Sapeva ce se avesse guardato di sotto avrebbe rischiato di cadere, risucchiato da una forza magnetica. Non sapevano se il percorso che stavano seguendo fosse realmente praticabile fino in fondo. Forse avrebbero dovuto fare marcia indietro cosa che sarebbe diventata una sorta di scalata a mani nude. Ophelia che lo distanziava con molta facilità per essere una malata di leucemia, a tratti lo prendeva in giro e in altri momenti lo incoraggiava e lo aspettava premurosa. Bardo non avrebbe mai rischiato così tanto se non avesse pensato che era malata – non che credesse completamente alla storia di quel cancro, ma ci vedeva una chiara metafora, una richiesta di aiuto. E poi non voleva sfigurare agli occhi di lei.

Sin dall’inizio della loro relazione oscillava tra compassione e ammirazione. Da molto tempo sognava di compiere un gesto eccessivo; dal loro primo incontro sotto l’Arc de Triomphe accanto a lei provava una sensazione di elegante disorientamento. Lei incarnava la bellezza delle cattedrali, sublime e tormentata. Ed era evidente che non fosse solo una posa: qualcosa la divorava dentro. Il cavaliere in Bardo si risvegliava e rimontava in sella: sarebbe stato all’altezza e l’avrebbe liberata dal drago.

Un giorno, forse un mese prima dell’episodio della parete rocciosa, lei lo aveva chiamato in ufficio chiedendogli se avesse un accappatoio e se volesse raggiungerla per fare insieme il bagno nella fontana di Place de la Concorde. Aveva inventato una scusa per i suoi colleghi architetti, ed era  uscito precipitosamente. La coppia si era concessa un bagno “sacro” nella fontana dorata, poi, aleggiando sempre in quella bolla di stravaganza, avevano gironzolato intorno alla Madeleine indossando due accappatoi bianchi troppo corti, sotto lo sguardo dei turisti. Durante il periodo in cui stava con Ophelia mio fratello aveva collezionato tutta una serie di critiche da parte dei suoi collaboratori che gli rimproveravano una mancanza di efficacia nel lavoro e si era diffusa la chiacchiera che usciva con una ragazza disturbata che lo menava per il naso.

In quel giorno d’estate, lassù all’estremità dell’Europa, erano arrivati sani e salvi sulla sabbia. Una insenatura incorniciata da aspri scogli. Le onde sembravano del tutto indifferenti alla prodezza di Bardo ma Ophelia aveva capito in quel momento a che punto lui l’amasse. E cominciava a rimpiangere le bugie raccontate, ma ormai si era spinta troppo in lontano per tornare indietro. Quella stessa sera fecero l’amore con più passione che mai.

 

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